Viaggio contro il tempo

aprile 30, 2010

1

Il «problema» era iniziato al consolato canadese di Beirut, il secondo giorno di settembre del 1975.

L’appuntamento era annotato su un foglietto, stretto nella sua presa. Continuava a tastarlo, istante dopo istante, per timore che volasse via sfuggendogli di mano, o che si sciogliesse nel suo palmo rovente.

Era scritto, nero su bianco. A forza di ripeterlo l’aveva imparato a memoria: «Le undici del mattino»… finalmente l’orologio segnava le undici meno cinque minuti, e «Radwan» si accingeva a fare il primo passo per entrare in una scatola prodigiosa, che rispondeva alla chiamata semplicemente premendo un pulsante… «Eccomi, al tuo servizio!». Non nelle favole, ma nella realtà, nella moderna Beirut che lui non visitava da tempo.

Cercò di ricordare l’anno della sua ultima visita a questa città sempre mutevole, ma la memoria lo ingannava! Era assolutamente certo che quest’invenzione stupefacente fosse ancora sconosciuta: basta premere un pulsante per passare dalla terra a un soffio dal cielo?

Non era un pulsante, ma l’anello di un jinn… non si azzardò a toccarlo, lasciando l’annosa questione al suo compagno di viaggio, «Simaan al-Abras».

Anch’egli, come lui, era venuto al consolato su appuntamento… con dei fogli.

2

«Che Dio ce la mandi buona!» esclamò Radwan istintivamente, trascinando anche il secondo passo, mentre la porta si chiudeva dietro di lui. A quel punto la scatola iniziò a salire, veloce come un razzo: «Che Dio ce la mandi buona!»…

Il suo cuore batteva in modo anomalo. Bisbigliò tra sé e sé: «Cosa ti succede? Nulla ti intimorisce, nemmeno le bestie feroci… perché temi quest’incontro?»

La sua voce interiore si prese gioco di lui: «La paura per l’incontro verrà dopo, ora sei turbato da questo missile…».

Giusto. Le sue ginocchia tremavano. Era un’esperienza nuova: «Oh Signore, liberaci da tutti i mali!». Voltandosi verso Simaan, notò che era calmo, impassibile come una statua.

Si domandò da dove prendesse tale coraggio. Sapeva che era un codardo, che si spaventava per lo svolazzare di una pernice. L’aveva costatato di persona, durante una caccia notturna… in quell’occasione il ragazzo era letteralmente uscito di senno. Da allora Radwan aveva iniziato a far circolare storielle sul suo conto, narrando aneddoti canzonatori quando il gruppo di amici si ritrovava sulle panchine di pietra del villaggio.

Ma ora era davanti a lui: un uomo, della stessa età di suo figlio maggiore, in piedi nella scatola prodigiosa senza battere ciglio, anzi apparentemente a suo agio.

Pensò che alcune persone mostrano il proprio coraggio in cupe foreste, nell’oscurità della notte, durante le tempeste, mentre altre non sperimentano la vita nella natura selvaggia e sono addomesticate dalla città, fino a diventarne figli da allattare. Simaan era uno di questi.

Mentre Radwan si compiaceva per quest’equazione, la porta si spalancò senza preavviso. La voce di Simaan lo sottrasse dalle sue riflessioni:

– Forza, scendiamo qui.

Fu quasi sbalzato fuori, come se la scatola maledetta avesse voluto salutarlo con una pedata.

– È così che ti congedi dai tuoi ospiti, gente di Beirut? Questa domanda rimase soffocata tra le pareti del suo cuore. Simaan proseguì, posizionandosi nella lunga fila e invitandolo a mettersi davanti a lui:

– Aspettiamo il nostro turno.

Le labbra di Radwan si schiusero in tono interrogativo, ma non esitarono ad aderire nuovamente l’una all’altra, secondo quanto aveva deciso:

– Se ne intende più di me di queste cose.

Per ammazzare il tempo prese a osservare gli strani volti che aveva attorno, le nuche allineate. Poco dopo si sentì chiamare, da una voce per certi versi dolce:

– Radwan Abu Yusef!

– Presente, qui. Sì, sono qui! – strillò.

Rispose in modo impulsivo e, senza aspettare alcun cenno di Simaan, uscì dalla fila, dirigendosi in fretta verso un angolo. Lì era seduto colui che l’aveva chiamato, dietro un muro di vetro con una piccola fessura per comunicare con l’esterno.

3

– Lei è il Signor Radwan Abu Yusef?

– Sì, sono Abu Nabil – rispose entusiasta.

La voce lo incalzò, in tono di biasimo:

– Abu Yusef o Abu Nabil?

– Entrambi… Abu Yusef è il mio nome di famiglia, mentre Abu Nabil è il mio cognome. Mio figlio maggiore si chiama Nabil, Dio protegga i nostri figli e …

Si interruppe, dato che non raccolse alcun segnale d’incoraggiamento da parte di quell’uomo, il quale, senza sollevare il capo dai fogli che aveva davanti, lo colse di sorpresa con un’altra domanda:

– È pronto per il colloquio con il console?

– Assolutamente sì. Sono pronto e preparato. – rispose gonfiando il petto.

– Prego, questa porta a sinistra.

– La ringrazio. Che Dio la benedica.

Mentre camminava verso la porta non tralasciò di cercare Simaan con lo sguardo e lo vide tranquillo al proprio posto. Costui accennò un sorriso, esortandolo a proseguire.

– Da solo? – chiese, con gli occhi di un bambino.

– Sì, ti aiuterà la segretaria.

– Sia fatta la volontà di Dio… a Lui ci affidiamo.

Parlava a voce alta, come se la folla che aveva intorno fosse scomparsa, e lui fosse rimasto solo, dinanzi al rompicapo e a una porta sbarrata.

4

La porta si spalancò, facendolo trasalire. I due battenti si erano aperti dall’interno, come sospinti da una mano misteriosa, uno verso destra e l’altro verso sinistra. Spuntò un ragazzo biondo, che lo fissò per un secondo, prima di fargli cenno di entrare.

– Sarà lui il console? – bofonchiò Radwan.

Si pentì di non essersi informato in merito alle sembianze di quest’ultimo, per non incappare in qualche errore grossolano.

Ma la mano del ragazzo insisteva nel suo gesticolare, mentre la bocca emetteva suoni astrusi, che attraversavano i canali uditivi di Radwan senza che riuscisse ad afferrarne il senso.

Lo additò nuovamente, così, malgrado la confusione che lo attanagliava, si decise a farsi avanti a passi pesanti. Una volta dentro, il suo cuore iniziò a battere all’impazzata e al contempo si fece più intenso il suo rimprovero:

– Vergognati! Guardalo, è un essere umano come te, non un leone e nemmeno una iena. E tu non temi nemmeno le bestie feroci e…

Il ragazzo biondo non gli diede modo di continuare il suo flusso di coscienza. Dopo aver afferrato un marchingegno metallico iniziò ad agitarlo attorno alla sua testa, lungo i fianchi, sotto le ascelle, tra i polpacci.

(Cosa sta facendo?)

Sentì che i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime e desiderò ardentemente la presenza di Simaan. Se fosse stato lì con lui gli avrebbe spiegato cosa stava facendo quell’uomo, se era il console o meno, se era sano di mente o pazzo, se questa era la prassi canadese per salutare!! E che razza di paese era quello verso il quale era stato invitato a viaggiare?

L’uomo gli diede le spalle, invitandolo a seguirlo, e lui ubbidì remissivo, pensando: la farsa non è terminata. Le sorprese non sono finite. Signore, aiutaci tu!

Aveva appena pronunciato quella frase quando sulla porta comparve il volto radioso di una ragazza elegante e raffinata, bella come il sole. Le sorrise amabilmente, allungandole la mano in segno di saluto. Lei fece altrettanto e iniziò a parlare in arabo.

– Lei è araba signorina? – le chiese, anche se intendeva: «Figlia mia! Mia salvatrice! Benedizione scesa su di me per liberarmi!».

– Sono la segretaria del console. Parla inglese o francese? – rispose concisa.

– Me la cavo a malapena in arabo.

Trattenne un sorriso e continuò:

– Non si preoccupi. Farò da traduttrice tra Lei e il console, mi segua.

– La ringrazio sin da ora. Lei è una manna dal cielo.

L’eco di quest’ultima espressione giunse fino alle orecchie dello sconosciuto dietro alla scrivania.

Non si alzò all’arrivo di Abu Nabil, nemmeno per stringergli la mano, ma lo invitò a sedersi.

Radwan non si stupì di questo comportamento, dovevano comunicare attraverso il linguaggio dei segni, dato che non conosceva le lingue, non parlava inglese e tanto meno francese, ma aveva un angelo custode al suo fianco. Questa ragazza era discesa dal cielo. Era un angelo, e che angelo!

Traduzione  di N. Rocchetti

“All’infuori della distruzione causata dalla guerra, credo che per uno scrittore nulla vada sprecato. Io ho utilizzato le mie sofferenze e quelle della mia gente, il trauma subito dal mio paese, come materiale per le mie storie. Gran parte dei miei scritti ha preso forma durante i bombardamenti. Scrivere è un modo per incanalare i sentimenti. Scrivere permette di confrontarsi con le proprie paure e urlare, in silenzio.”

Con queste parole Emily Nasrallah – Kfeir, 1931 – esprime efficacemente l’urgenza della scrittura, intesa quale “soffio vitale” che permea l’esistenza. Autrice affermata, giornalista, insegnante, attivista per i diritti delle donne, è legata a doppio filo alle vicende che hanno interessato la nazione libanese, da cui non si è mai separata, nemmeno durante le più tragiche manifestazioni di violenza parossistica. Scrittrice prolifica, spaziante entro il genere prosastico, è stata inserita dalla critica nel gruppo delle “Decentriste di Beirut”, movimento letterario anticonvenzionale che incarna uno sguardo squisitamente femminile sulla guerra civile libanese. La sua produzione è caratterizzata da svariati e ricorrenti leitmotiv, tra cui si collocano la rappresentazione dell’anima rurale del Libano, ricca di potenzialità e al contempo di problematiche; le discriminazioni subite dalle donne e le loro battaglie per una maggiore emancipazione; il valore conferito al senso d’appartenenza; la migrazione, esplorata attraverso molteplici prospettive; la necessaria negoziazione con la violenza vissuta nella sua quotidianità.

Un’altra traduzione completa che attende un editore.

Domani i primi quattro capitoli nell’ottima traduzione di Nadia Rocchetti.

S. Nassib, Una sera qualsiasi a Beirut, trad. dal francese di G. Panfili, e/o, Roma 2006

In questa serie di racconti che prende il nome da uno di essi, Selim Nassib riesce ad accostare la dimensione emotiva attraverso cui vive da lontano il Libano – il suo Paese – e quella razional-esplicativa della sua vita da emigrato in Francia, dove esercita la professione di giornalista, che lo costringe, in un certo senso, a render esegetico il sentire dell’autoctono che guarda da lontano la sua terra.

Leggi il seguito di questo post »

Lettere da una straniera

aprile 28, 2010

Hoda Barakat, Lettere da una straniera, traduzione di S. Pagani, Ponte alle Grazie, Milano 2006
Tra uno spazio interiore di smarrimento ed uno esteriore di inevitabile lontananza si collocano le parole di Barakat, e sono esse ad avere il potere di rivelare l’intimo della coscienza del migrante, tramite una disonestà espressiva che ossimoricamente rivela con onestà le ferite profonde causate dall’abbandono del Paese.
Leggi il seguito di questo post »

‘Ayn šams (Ein shams)

aprile 27, 2010

‘Ayn šams, regia di I. al-Battùt, Egitto 2007
Golden Tauro al Taormina Film Festival del 2008, Golden Hawk all’Arab Film Festival di Rotterdam 2008, Internationa Carthage Festival Award 2008

In Egitto vengono prodotti circa 100 film “independenti” all’anno, perlopiù cortometraggi, realizzati con tecnica digitale. Grazie al supporto di organizzazioni culturali straniere, sin dall’inizio degli anni ’90, molti giovani alle prime armi o assistenti di registi del cinema cosiddetto mainstream o commerciale, ebbero l’opportunità di cimentarsi col mezzo audiovisivo, con la facoltà di potersi esprimere senza tabù o riverenze. Da allora, altri enti privati hanno sostenuto il movimento, tra cui Semat, al-Warsha e la Scuola Gesuita. Non tutti i lavori autodefiniti di sinima mustaqilla, tuttavia, sono stati concepiti dai loro autori come necessariamente antitetici rispetto al cinema commerciale. C’è chi usa una tecnologia a basso costo per cercare di catturare l’attenzione dei canali di produzione, e anche chi si esprime col digitale perché la considera una forma artistica bastante a se stessa. Muhammad Mamduh, studiando il fenomeno, nota che la definizione di questa forma d’arte è attualmente molto labile. Se forse non è ancora giunto il momento di considerarlo un nuovo genere, si può tuttavia ipotizzarne una rapida e maestosa espansione.

Ibrahim al-Battut è uno dei più acclamati registi della corrente del cinema indipendente nel mondo arabo. Già la sua prima opera, Ithaki (2005), gli aveva portato fama e riconoscimenti in patria e all’estero. Dopo una laurea conseguita all’American University del Cairo, nel 1985, inizia la sua carriera come giornalista di guerra, catturando con la videocamera i drammi di conflitti sanguinosi in tutto il globo, dal Kosovo all’Iran-Iraq, dal Libano al Sri Lanka, passando per la Palestina, la Somalia e l’Afghanistan. L’esperienza dei suoi reportage filtra anche nel suo secondo lungometraggio di fiction, ‘Ayn Shams (2008).

Recatosi nell’agosto 1998 a ‘Ayn Shams, un anonimo quartiere popolare del Cairo, per documentare con la sua videocamera una manifestazione antigovernativa, viene ferito da un colpo di pistola al braccio destro. Egli stesso dichiara: “Così è cominciato il mio lavoro di reporter di guerra […]. ‘Ayn Shams mi affascinava da tempo, così scrissi subito una storia che poteva essere ambientata lì, utilizzando anche materiale che avevo girato durante la mia ultima visita in Iraq: in questo modo ho chiuso il cerchio del mio lavoro di documentarista, che avevo deciso di iniziare proprio in quel quartiere, circa 20 anni fa”.

In ‘Ayn Shams si intrecciano le storie di diversi personaggi, raccontati da una voce onnisciente fuoricampo. Ecco Ramadan, tassista e autista privato di un uomo d’affari; la figlioletta undicenne Shams, vivace e creativa, che coltiva il sogno di visitare il centro del Cairo; la giovane dottoressa Meryem, di ritorno da una missione in un ospedale iracheno, testimone della catastrofe causata da una assurda guerra. L’uranio impoverito, arma “regalata” dalla coalizione occidentale alla popolazione dell’Iraq, distrugge dal 1991 intere generazioni. Parallelamente, sulle sponde del Nilo, l’uso incontrollato di pesticidi e di ormoni spegnerà il fiore di una giovane vita, tra l’incoscienza della popolazione e le omissioni della rampante classe politica locale.

al-Battut disegna, con contorni più che realistici e taglio documentaristico, le sofferenze di due paesi: l’Iraq, devastato in nome della “democrazia occidentale”, e l’Egitto, contaminato dai veleni e dalla corruzione politica. In un gioco di specchi tra micro e macrocosmo, tra locale e globale, si gioca la sorte dei cittadini del mondo arabo.

Dopo esser stato bloccato della censura per più di un anno, il film è stato proiettato anche in Egitto.

Aldo Nicosia