Abdel Ilahi Salhi, Kullama lamastu shay’an kasartuhu, Dàr at-Tuqbàl li-n-našr, ad-Dàr al-Baydà’ 2005

Solitudine
Settecemtomila donne vivono sole a Parigi
La loro età è tra i trenta e i quaranta
Nubili, divorziate o
Madri.
La voce dell’annunciatore era neutrale
Biascicava questo semplice numero fra gli altri dettagli della vita moderna
In coda al telegiornale.
Settecentomila donne sole
Uomo!
E tu torturi te stesso davanti allo schermo del computer da ore
In cerca di una frase appropriata che esprima il male di vivere senza una donna.

Risveglio
Mal di testa martellante
Nervi a fior di pelle
Una scoreggia silenziosa e dolorosa.
E ora, davanti al mio sguardo, si schiera un contingente metallico
Di rimorso sottile
Potenziato da una pattuglia di formiche furenti
Che mi pizzicano la schiena.
Fuori, il rumore del carro della spazzatura
I deliri della mia ex
Le bollette dell’acqua e dell’elettricità
I falsi sentimenti…
E nonostante tutto questo devo radermi in fretta e andare al lavoro.

Lo scommettitore
a Y. Gh.

Tutto doveva condurti a questo momento:
Chiedi permesso ai tuoi ospiti per una faccenda urgente
Attraversi la sala correndo fra i tavoli del ristorante
Esamini il tuo volto nello specchio del cesso
Realizzando che è l’ora della verità
E che ottenere piacere è una scommessa nella quale dare e avere sono uguali.
Torni al tavolo
Ti getti su di lei e davanti a tutti, improvvisamente, la baci.

Contro il mito e lo stereotipo è la poesia in arabo classico a essere qui rappresentata in tutta la sua modernità, a riprova che la lingua della tradizione può essere modellata, nelle mani di un abile artigiano, e resa attuale quanto mai, tragica, disillusa, sagace e surreale. Le poesie colpiscono proprio per questo: per l’uso della metonimia, per gli inserti di parole straniere, per la ripetitività martellante, per la loro icasticità, per l’essere così vicine alla nostra sensibilità di lettore occidentale contemporaneo pur essendo in lingua araba e arabe al cento per cento, cioè quanto di più lontano da noi il luogo comune vorrebbe affermare.

Le poesie di questi autori sono da leggere, da consumare, bi-isràf, con eccesso, come il titolo della rivista fondata dal Salhi e elHakmaoui alcuni anni fa, che proponeva al pubblico marocchino i poeti della nuova generazione.

Il poeta narratore della tradizione rimane un cantastorie nel qui e ora ma, rompendo con una tradizione che vuole la lingua sottoposta a rigide regole puramente e squisitamente formali, modella a suo piacimento il verso creando così storie poetiche, che scivolano spesso nella vera e propria narrazione per fornirci un momento di pausa quasi preparatorio al colpo di frusta che ci farà sorridere, ridere o rimanere attoniti per la profondità dle pensiero, del sentimento espresso.

È poesia di rottura perché rompe con l’immagine della poesia araba che abbiamo, dunque, ma anche con la poesia araba cosiddetta del verso libero, perché se ne distacca per temi e modalità scrittoria. Qui davvero il verso è libero, libero di oltrepassare i confini del Marocco per andare oltre il mondo arabo e farsi universale. Questo genere di poesia, narrativo, che sfida la lingua stessa e la spinge ai limiti della sua espressività, è, a nostro avviso, il più adatto a essere tradotto raccogliendo la stessa sfida.

Questa poesia potrebbe essere definita surrealista, perché, come quella, ribadiamo ancora una volta, si è liberata dal giogo formale ed è quindi diventata una poesia pienamente cosciente di se stessa: ma anche perché è una poesia di rivolta, non solamente contro uno stato di fatto, ma anche contro i limiti della condizione umana. La poesia non è fuori dalla realtà: non solo è necessaria, ma è indispensabile alla vita, dev’essere, per riprendere le parole di Dalì sull’architettura e quanto detto prima sul doverla consumare, commestibile. È surrealista perché utilizza lo humor, un humor nero che rimanda alla patafisica, per combattere la letargia che ci avvolge.

Come affermava Lautrémont: “I gemiti poetici di questo secolo non sono altro che sofismi”. Salhi ed elHakmaoui ce ne liberano i parte con i loro versi.

La modernità della poesia marocchina è molto giovane: è solo da poco più di cinquant’anni, infatti, che i poeti dell’occidente arabo sono riusciti a sottrarsi al peso della tradizione poetica araba. Da sempre tesa fra due poli, la cultura araba medio orientale da un lato e l’Andalusia e la Francia dall’altro, l’espressione poetica marocchina è riuscita a trovare un proprio spazio solo con difficoltà. Proprio per questo, forse, ritroviamo nelle poesie di Salhi e elHakmaoui una duplice tendenza: il retaggio arabo classico, nell’uso della lingua araba stessa, nelle sfumature di significato di cui è ricca la lingua, nell’ironia e nella sferzante modernità, nel modo dissacratorio di leggere la quotidianità, una quotidianità che si vuole universale e nello stesso tempo marocchina a tutto tondo.

Senza pretendere qui di fare una storia della poesia marocchina, vorremmo cercare di segnalare alcune caratteristiche della scrittura che proporremo nei prossimi giorni (Abdel Ilahi Salhi e Jalal al-Hakmauoi) in traduzione. È verso gli anni ’70 che la poesia marocchina comincia a riflettere un nuovo modo di pensare, che cerca di reinventare e cambiare un mondo sempre più violento.

È in questo decennio che la poesia scritta in arabo diventa più visibile, coagulandosi intorno alla rivista al-Qasìda al-giadìda di Muhammad Bannìs (censurata dopo pochi anni), rivista che difende l’autonomia poetica dalla scrittura politica e che incoraggia i nuovi autori a sperimentare.

Fra i poeti di questo periodo possiamo ricordare Ahmad Belbawi, Abd Allah Zurayqa (Zrika), cui si aggiungono, negli anni ’80, Ahmad Barakàt e Wafà’ al-‘Amràni.

Tra le esperienze di questo periodo quella nota come “l’esperimento calligrafico” diretto fra gli altri dallo stesso Bannìs, esperienza nella quale la calligrafia marocchina, generalmente riservata all’utilizzo del makhzen, per scrivere brani del Corano, viene utilizzata come ductus per scrivere poesia sovversiva, attuando così una contaminazione del sacro.

Negli anni ’90 compare una nuova generazione di poeti – una generazione ‘perduta’ – che abbandona la retorica convenzionale e persino il verso libero che tanto libero non era, per lavorare con un linguaggio minimalista, in quella che sarà denominata qasìdat an-nathr, il poema-prosa, facendo ampio uso di una scrittura visuale che utilizza le tecniche del montaggio cinematografico, delle sequenze filmiche, l’inserzione di vocaboli di lingue straniere, riferimenti alla cultura rock.

Questi poeti saranno influenzati dalla beat generation americana: Bukowski, Brautigam, Carver.

(continua…)