The English Harem

agosto 31, 2010

The English Harem, film per la TV, regia di Robin Shepperd, GB 2005

Nella società inglese che possibilità ha una giovane romantica di veder realizzati i propri sogni stando tutto il giorno dietro la cassa di un supermercato? Molto poche. Così Martine McCutcheon, protagonista di The English Harem – per chi non la ricordi era la cameriera del primo ministro Hugh Grant in Love Actually – col suo viso dolce, i suoi sogni e la sua rahma non è soddisfatta, tanto che riesce a farsi licenziare per non aver impedito a un cliente un piccolo furto.

Alla ricerca di un lavoro capita in un ristorante il cui proprietario è un persiano (Art Malik), molto affascinante, persona molto seria, musulmano sciita praticante, molto ricco. Gli ingredienti ci sono tutti, il maktùb fa la sua parte (non posso raccontarvi proprio tutto) e va da sé che i due si innamorano profondamente. Ma qui cominicano i guai.

Già perché il “musulmano” ha due mogli – vedove di un suo fratello deceduto che egli si è sentito in “dovere” di sposare pur non avendo con loro rapporti (“ever” afferma il protagonista) per responsabilità morale e per un totale di quattro figli. E la condizione di terza moglie, l’unica che ama, non è gradita all’ex fidanzato della ragazza…

Il film scorre rapido, divertente, con alcuni episodi che fanno pensare, con un po’ di dramma e alcune risate. Insomma c’è proprio tutto. Ed è completamente dalla parte dei musulmani. Al punto che, quando  per poter avere un incontro carnale i due contraggono un matrimonio mut‘a e si recano in un albergo (favoloso albergo, intendiamoci bene!) il matrimonio temporaneo ci viene proposto come se fosse la cosa più bella del mondo, situzione che ogni ragazza vorrebbe per sé.

Intendiamoci, il film mi è piaciuto, proprio perché per una volta i musulmani vengono presentati come gli altri e perché, pur affrontando anche il tema del razzismo e della violenza, lo fa con ironia, senza esagerare né con l’apologia dell’Islàm, né con il “siamo tutti fratelli”.

Da vedere.

Storie per librai

agosto 30, 2010

F. Lumachi, Storie per librai, Robin Edizioni, Roma 2003

Il volumetto è la ristampa dell’originale del 1910 nel quale Lumachi, noto libraio fiorentino, racconta eventi legati al mondo dell’editoria, mestiere che ben conosceva, per gli “Amici dei Libri”.

Nel leggerlo ne abbiamo trovata una che qui interessa, dal titolo  “Dell’Abate Giuseppe Vella, famoso falsificatore di codici arabi”. Leggi il seguito di questo post »

F. Choutri, sous la direction de, Violence, trauma et mémoire, Casbah Editions, Alger 2001

Il “decennio nero” ha lasciato in Algeria un segno profondo e anche, a mio parere, una certa incapacità di elaborare il lutto per lo meno in tempi brevi. Ciò è dovuto in parte alla perdita di senso che la violenza genera di per sé ma anche al legame che questa ha riallacciato con le violenze subite nel passato coloniale recente del paese.

Già in precedenza (1997) la rivista an-Naqd aveva  dedicato un numero speciale alla questione del trauma da un punto di vista antropologico e sociologico. Questo volume affronta invece il problema da una prospettiva psicanalitica, nel tentativo di “tradurre” il silenzio provocato dal trauma e dare un nome a una sorta di rimozione collettiva (“Non succede nulla, ci siamo abituati, abbiamo superato una guerra ne supereremo una seconda”).

Questo adattarsi al disordine è il sintomo di una passività che fa riferimento al destino più che alla storia e che gli autori di questo testo cercano di indagare.

Un tentativo, dunque, di rompere con il silenzio legato a questo periodo ma anche una ferma volontà di rompere con quanto scritto sull’argomento da altri poiché come ricorda Fadhila Choutri

“la tentazione di vedere nella violenza senza nome un sintomo etnico è forte e rileviamo come le produzioni immaginarie proiettate in passato sulle popolazioni autoctone sostenute dalla psichaitria coloniale siano oggi massicciamente riattivate”.

Il volume pertanto offre i contributi – teorici e nati da esperienza sul campo – di psicanaliste e psicanalisti algerini con due interessanti contributi esterni, uno argentino e uno brasiliano, di medici cioè provenienti da paesi che a loro volt hanno subito una violenza interna e che hanno dovuto imparare a elaborare il lutto.

L’interesse di questo libro sta nel fatto che, pur se l’argomento è piuttosto specifico, una volta tanto non si tratta dell’altro che analizza e spiega, al contrario l’analisi è compiuta da chi questa cultura la conosce a fondo e riesce quindi a coglierne aspetti che sfuggono ai più.