L’aube Ismael

settembre 24, 2010

M. Dib, L’aube Ismael. Louange, Editions Barzak, 2001 (con traduzione in arabo a fronte)

Quanto sappiamo di Hagar (in arabo Hàgiar ma anche Hàgir) non proviene dal Corano, che non fornisce dettagli sulla concubina del profeta Abramo, schiava egiziana e madre di Ismaele con il quale Abramo ricostrusce la ka‘ba. Tuttavia, anche se la storia di Hagar è ricostruita solo attraverso fonti secondarie, il suo ruolo nell’agiografia musulmana è rilevante. Oltre a partecipare alla rifondazione del monoteismo sulla terra ella, infatti, è anche l’antenata dei veri eredi di Abramo, i musulmani: sarà, infatti, un suo discendente, Muhammad, a restaurare la religione di Abramo dopo che il mondo avrà deviato ancora una volta dalla retta via.

Ibn Hišàm chiama Hagar “di tra le madri degli arabi”. La sua figura, ricordata in un rituale specifico del pellegrinaggio (sa‘i ) è punto di riferimento per i musulmani come modello di consapevolezza e azione.

Secondo le fonti sono Abramo e Ismaele a ricostruire la ka‘ba; pur se Hagar non svolge nessun ruolo nella ricostruzione la sua tomba si trova all’interno del recinto sacro e la corsa tra Safà e Marwa è parte del rituale del pellegrinaggio. La sua figura risulta così centrale nell’esperienza del pellegrinaggio: accettando di restare nel deserto con il figlio Hagar rappresenta la fede, e nel suo correre tra Safà e Marwa per salvare il figlio dalla morte è anche simbolo di raziocinio e della capacità di non lasciarsi andare. Ella dunque rappresenta la sottomissione, ma anche l’aspetto attivo dell’essere un musulmano.

Hagar è dunque a un tempo donna, madre e progenitrice degli arabi e simbolo dell’identità musulmana. Tutti questi aspetti vengono ripresi nell’opera di Dib qui presentata in una dimensone che recupera una tradizione molto antica per inserirla in un contesto presente. L’opera riprende in qualche modo il mito della creazione: “Prendi un pugno di sabbia e diffondila. Il deserto avrà nome. Tutto avrà nome. Il nome avrà nome”. Nello stesso modo in cui Eva, mentre Adamo nomina su indicazione di Dio, “si ingegna a vivere”, così Hagar, mentre il testo-Ismaele nomina, “è”. “È” attraverso l’atto della scrittura, pur se questa si manifesta sulla sabbia e per ciò stesso risulta non imperitura.

Il tema della donna e della rifondazione della stirpe era già stato affrontato da Dib in un romanzo, Le sommeil d’Eve:

“L’assoluto manifestato in forma di donna è agente attivo perché esercita un controllo totale sul principio femminile dell’uomo, cioè sulla sua anima. L’assoluto è anche passivamente ricettivo, perché nella misura in cui appare sotto forma di donna, ne è controllato ed è sottomesso ai suoi ordini. Da qui discende che contemplare l’assoluto in una donna è vederne contemporaneamente i due aspetti, cioè vederlo più compiutamente che in tutte le altre forme sotto cui si manifesta. Per questo la donna è creatrice e non creata. Perché queste due qualità, attiva e passiva, appartengono all’essenza del Creatore, ed entrambe si manifestano nella donna”. (p. 158)

Questo assoluto che si manifesta come agente attivo in Hagar e in Eva dà in Dib luogo alla scrittura attraverso la quale l’autore decifra la storia e il mito e tuttavia, poeta senza patria, la trascende. La figura di Hagar rappresenta anche l’eterno esilio, fisico e lingusitico in quella lingua francese che l’autore considera come “una lingua esterna – anche se è in francese che ho imparato a leggere – ma ho creato la mia lingua di scrittore all’interno della lingua appresa… conservo così la distanza ironica che facilita la ricerca senza passione”.

In L’Aube Ismael dunque assistiamo a una rifondazione mitica, storica, ma anche linguistica, e perché no, di genere ed è questa la cornice entro la quale questo testo, né poesia né racconto né poema riteniamo debba esser letto.

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