Beirut Diaries

aprile 11, 2010

Beirut Diaries, regia di Mai Masri, Libano 2006, 80′

Beirut Diaries si svolge all’indomani dell’assassinio di Rafìk Harīrī, avvenuto all’inizio del 2005. Per il Libano, soprattutto per la parte musulmana, rappresenta uno choc e la rottura definitiva con la Siria, alla quale esso viene attribuito, nonché la fine del nazionalismo arabo sostenuto da un’appartenenza confessionale.

Da quel momento in poi, infatti, i libanesi musulmani, fino ad allora sempre sotto tono e “silenziosi” sulla politica siriana, si staccheranno definitivamente dall’ingombrante vicino. Il documentario è tutto sommato valido, seppur dopo un po’ pleonastico, soprattutto perché riesce a far percepire il gran trambusto opinionistico e spesso divergente dei libanesi.

Quello che apparentemente può sembrare nel film il superamento della confessionalità di fronte a un evento di estrema gravità, e che da questo senso di comunanza di intenti e ideali  – che dovrebbero essere la costruzione del Libano – alla fine si rivela tuttavia essere, nello svolgersi degli eventi (che in realtà non ci sono, poiché non “succede” nulla), il motivo per cui non succede niente, la “malattia” di questo Paese.

Le comunità non rappresentano altro che deviazioni ideologiche prive di consistenza ontologica se non quella fittizia e arbitraria che riesce a edificare stendardi identitari ingannevoli, stereotipati e fuorvianti che, nonostante ciò, hanno lo scioccante potere di rendere idee e pretesti realtà fattuale dando luogo a nepotismi, reti clientelari sui posti di lavoro, in panetteria come nei parcheggi… Purtroppo però senza identità religiosa (ostentata) non si è nessuno. Il nome non basta, la nazionalità nemmeno.

Non si tratta di un film, ma di un documento che si propone di essere lo specchio della realtà. È noto, tuttavia, che nel solo dover rispondere a delle domande o di essere consapevoli che si stia “apparendo” a un audience vasto, la realtà viene forzata. E anche questa è realtà.

Il mettere costantemente in luce la diversità confessionale del Libano contemporaneo non è quindi un espediente teorico per intagliare con maggiore forza i presunti “confini” tra le comunità qui presenti, quanto invece è un modo di non far passare sotto silenzio, per l’ennesima volta, questo confessionalismo ancor oggi onnipotente che decide non solo il sistema, ma anche la microcosmica vita di un qualsiasi individuo, ed è un modo di non far tacere le nobili voci critiche ed indignate riguardo al disgustoso divario sociale ed economico del Paese, fortemente anti-egualitario.

Estella Carpi

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